Circuiti Disintegrati, I paradossi della crisi secondo Peter Halley
by Marco Dotti
La Stampa, May 24th, 2009, p.11
L’ARTISTA: Pittore, ma anche critico e docente all’Università di Yale, Peter Halley è nato il 24 settembre 1954 a New York. Spesso accostato all’arte astratta e al minimalimo, Halley è in realtà molto interessato, per sua stessa ammissione, alle dinamiche concrete. Le sue prime esposizioni risalgono ai primi anni Ottanta, nelle gallerie dell’East Village. Nel 1997, il Museum of Modern Art di New York gli ha dedicato una mostra personale dal titolo «New Concepts in Printmaking 1». Le sue opere sono presenti nelle principali collezioni mondiali (dal Whitney Museum of American Art, al Tate Modern, al Guggenheim). Ha fondato e diretto per dieci anni, dal 1996 al 2006, la rivista «index magazine». Rivista poi «migrata» sulla rete (www.indexmagazine.com). I suoi scriti teorici sono stati raccolti con il titolo «Scritti sull'arte ed altro» (Tema Celeste edizioni, 1990). Sul suo lavoro, oltre al testo di Arturo Schwarz «Peter Halley, i diagrammi dell’utopia» (Tema Celeste edizioni, 1998), si segnalano le pagine dedicategli da Denys Riout nel volume sull’«Arte del ventesimo secolo» (Einaudi, 2002) e da Demetrio Paparoni nell’«Arte contemporanea e il suo metodo» (Neri Pozza, 2005).
******
Ci sono paradossi che si inscrivono direttamente nelle forme, anche in quelle più lineari e semplici. Nel lavoro di Peter Halley questi paradossi assumono forma di «diagrammi sociali», di celle, di «microchips» stilizzati, di circuiti di linee e cortocircuiti di colori a rappresentare – in qualche modo – il calco di una «realtà» in preda alla follia spettacolarizzata e travolta nel suo flusso alienante. «Lo spettacolo», ricorda l’artista newyorkese citando Guy Debord, non è però un semplicistico insieme di immagini, «ma un rapporto sociale fra singoli, mediato dalle immagini».
Il punto in cui si discosta da Debord – dalla sua Société du spectacle, quantomeno – è nella considerazione del falso. Per riflettere su questa mediazione, infatti, Halley preferisce parlare di simulacri, riprendendo il concetto dal lavoro di Frank Stella e dagli scritti di Jean Baudrillard, uno dei suoi autori di riferimento. È a Baudrillard in particolare, e al suo libro L’Echange symbolique et la mort – lavoro oggetto di molte critiche e vittima di un duro ostracismo quando uscì a Parigi, nel 1976, per le edizioni Gallimard – che Halley ha legato anche le proprie riflessioni teoriche (da The Crisis in Geometry, pubblicato su «Arts Magazine» nel giugno 1984 a Frank Stella and the Simulacrum, apparso su «Flash Art» nel gennaio 1986). «Oramai nessuno può più negare», osserva ancora Halley, «che Baudrillard avesse colto non solo dettagli o sfumature, ma il cuore stesso delle contraddizioni che agitano il nostro tempo e che, alla fine degli anni Settanta, né il pensiero critico, né la gauche in genere erano riuscite a intravvedere». La nozione di scambio simbolico, la crisi del concetto di valore e la fine della produzione industriale classica: tutto quello che Baudrillard chiamava «rivoluzione strutturale del valore» sembra infine avere dato vita a uno «scambio impossibile», a un rapporto incerto fra gli uomini e il mondo, a un’assoluta e non meno critica incomunicabilità fra le cose e i loro referenti (segni). Spesso definito «pittore astratto», Halley è in realtà molto lontano dall’astrazione. I suoi interessi lo portano a scavare nelle forme geometriche per decriptarne il «paesagio sociale».
Il suo lavoro ha iniziato a farsi conoscere attorno al 1982-1983... Che cosa accadeva in quegli anni?
Accadevano cose particolari, a New York e altrove. Ma soprattutto a New York, città che nel frattempo è molto cambiata e ha perso alcuni fra i tratti che la rendevano unica, per energia e vitalità nelle forme. Non parlo della città come di un luogo fisico preciso e neppure mi riferisco al mondo dell’arte in sé, o quanto meno non faccio riferimento a qualcosa di chiuso, settoriale, impermeabile alle istanze di altri campi, pratiche, universi... Sono gli anni in cui da noi, negli Usa, cominciavano a diffondersi certi libri, certe idee, delle idee-forza le chiamerei: tutto ciò che poi sarebbe stato classificato sotto la dicitura «French Theory» era allora poco più che un ammasso incerto di parole, di pensieri, di idee. Incerto, ma ad alto potenziale. Alcuni nomi, alcuni libri, certi autori erano ben noti ai lettori, e ai lettori europei soprattutto, ma la loro ricezione negli Usa, anche attraverso il lavoro e le pratiche dei giovani artisti, sarebbe diventata presto una forma nuova di ricezione, rimbalzando come un boomerang in Europa. Paradossalmente, si potrebbe dire che la «French Theory» benché composta da filosofi francesi di impostazione post-strutturalista, sia in qualche modo «nata» negli Stati Uniti e da lì abbia fatto ritorno, dopo l’esilio, nella sua terra d’origine.
Io allora ridipingevo finestre, prigioni. Avevo letto Surveiller et punir, ma soprat- tutto il volume di Jean Baudrillard Simulations, un volume che ebbe un effetto dirompente sulla mia maniera di pensare il lavoro nell’arte e dell’arte. L’estensione andava dal carcere, agli spazi apparentemente aperti, fino all’idea di una sorta di reale non più reale, un reale talmente assoluto da non avere più memoria né futuro, né termini di paragone e pronto a scomparire nel suo eterno presente, diventando una sorta di «hyper-real». Questa iperrealtà post-industriale mi appariva inquadrabile in diagrammi e celle. In fondo, ciò che ci si parava davanti non era una realtà vera contrapposta a una realtà falsa, o viceversa, ma una vera e propria liquidazione della realtà stessa.
Una realtà che definirei integrale, dove tutto funziona come in un circuito integrato e le cose si muovono circolarmente, in una sorta di vertigine dello scambio o di estasi confortevole. Fino a quando anche il circuito esplode.
Da qui il suo interesse oltre che per la geometria, ache per le forme e gli spazi «altri», quelle forme e quegli spazi che Foucault chiama «eterotopie»?
Per me Foucault era soprattutto un filosofo dello spazio. Dello spazio attraversato da tensioni, costruito da forze, modellato da discipline e poteri. Tentare di capire quali «forme» corrispondessero a determinate discipline, a particolari forze, a «certi« poteri è stato un contributo fondamentale portato da Foucault. Anche la sua analisi sullo «spazio del discorso», sulla dinamica delle interpretazioni: tutto questo ha avuto un’influenza incomparabile su molti artisti che si stavano formando nella New York degli anni Ottanta. Foucault – e più ancora Baudrillard quando osserva che la «mappa precede il territorio» - ci hanno mostrato che lo spazio, anche quello apparentemente più neutro, si trovi diviso in celle isolate e queste celle siano poi interconnesse in un reticolo, come quello stradale, come le condutture di gas, luce elettrica, acqua, energia, comunicazione, cavi del telefono o della televisione, e oggi anche reticoli immateriali (i campi elettro-magnetici): flussi di parti regolate dal tutto, disciplinate nel tempo e nella dinamica dei loro movimenti. Pensi alle nostre città, fatte di strade, cavi, di celle semoventi come le automobili, e di esseri umani che ci stanno dentro e si muovono, lavorano, ma tra loro non interagiscono affatto. Queste grandi reti irreggimentano l’essere umano, le sue attività, le sue percezioni e trasfomano il paesaggio, incrementandone la «geometria».
Forse anche questo è un paradosso, ma il suo lavoro sembra partire proprio da una crisi della geometria. Se è vero che ogni sistema si inventa da sé un proprio principio di equilibrio, è altrettanto vero che quando vengono a mancare le relazioni – spesso bipolari: bene/male, vero/falso, segno/referente - su cui quel principio si basa il sistema genera una sorta di massa critica e si avvia alla deriva...
Osservando le cose, ho pensato di prendere dei pannelli e, banalmente, di tracciare delle linee. Poteva essere una finestra, ma poteva egualmente essere una prigione. Al posto del legno dei serramenti, si potevano vedere delle sbarre. Ecco che con un piccolo spostamento della forma geometrica si arriva al diagramma della prigione. È da quel momento che ho cominciato a lavorare sulle forme astratte – pur non ritenendo io di fare «pittura astratta» – per dare loro la forza del diagramma che, senza alcuna pretesa di rappresentazione, doveva comunque riferirsi a delle forme costruite dagli esseri umani. Forme socialmente presenti e visibili socialmente.
Quindi l’analisi di questi campi materiali e immateriali del potere, svolta da Foucault, Baudrillard e dalla «French Theory» in genere, fece presa direttamente nel campo artistico...
La mia generazione è stata la prima, negli Usa, a rileggere Michel Foucault. La prima – intendo dire – a leggerlo in una certa chiave. Le sue ricerche su potere, spazio e visione (dimensione «visiva» del potere e dello spazio) furono per noi una vera e propria rivelazione. All’inizio degli anni Ottanta, a New York, gli artisti – giovani e meno giovani – cominciarono a leggere i libri dei pincipali rappresentanti della cosiddetta «French Theory», da Baudrillard a Foucault, da Deleuze a Félix Guattari. Fu Sylvère Lotringer a dare un contributo fondamentale alla nostra conoscenza di questo filone del pensiero contemporaneo, con la sua rivista e la casa editrice omonima, Semiotexte che ebbero grande impatto sui giovani artisti dell’avanguardia. I «francesi» erano letti da persone che provenivano da campi diversi, e in un certo senso il lavoro di questi filosofi non faceva che uscire dalle cattedre e, per uno strano processo di ricezione, veniva da noi percepito come una ripresa, una continuazione dell’avanguardia degli anni Sessanta.
Eppure, proprio l’incontro diretto con Baudrillard non fu dei più felici... Ci fu un malinteso, diciamo pure un cortocircuito fra intenzioni, aspettative e fra il timore di creare l’ennesima «scuola».
Quando fu invitato al Whitney, 1987, Baudrillard fu senz’altro sorpreso dall’entusiasmo che molti di noi – allora venivamo chiamati NeoGeo -dimostravano, ma soprattutto pensò che la cosiddetta «simulationist school» (che doveva includere, tra l’altro, Jeff Koons, Ross Bleckner e Sherrie Levine) fosse una sorta di frode intellettuale o intellettualistica.
Ma la cosa si chiarì subito, anche se rimane indicativa dell’entusiasmo che i suoi lavori sapevano produrre su di noi. Non volevamo eleggerlo a «maestro» di nessuna scuola. Semplicemente, la sua lettura del mondo ci sembrava andasse nella giusta (anche se infausta) direzione. E su questo, almeno su questo, non credo ci sbagliassimo di molto.